Partendo dalle note di Leonardo Da Vinci ai suoi bozzetti anatomici, Carlo Bellieni (articolo de L'Osservatore Romano) ci mostra, fino ai nostri giorni, come la parola "feto", e l'idea sottesa di un agglomerato di materiale organico, si sia sviluppata solamente in tempi recenti, sostituendo gradualmente la parola bambino, utilizzata da sempre anche per i non ancora nati. Una distinzione non solo terminologica, ma chiaramente semantica, e che presuppone anche un cambiamento drammatico di valori etici.
Una cosa è dire (e pensare) ad esempio di praticare sperimentazioni o interruzioni di gravidanza su un bambino, altra cosa sembra essere divenuta, con una diminuita sensibilità umana e sociale, pensare di praticare le stesse tecniche su di un "qualcosa" chiamato "feto". "Ma cosa cambia fisiologicamente col parto ?" si chiede Bellieni. "In realtà ben poco: entra l'aria nei polmoni, si chiudono dei piccoli circuiti nel cuore, e si stacca la placenta. Ma la luce già in parte filtrava agli occhi attraverso l'utero teso, il bambino dentro l'utero già sentiva i suoni, già si succhiava il pollice, aveva il singhiozzo, aveva un cuore ottimamente funzionante, un cervello che elaborava le sensazioni e addirittura sognava, e sentiva - se stimolato - il dolore".
Se quindi "alla nascita cambia ben poco", che senso avrebbe "usare in modo così stigmatizzante il termine "feto", quasi a significare che prima e dopo il parto si parla di due entità distinte ?"
Link SRM, (cortesia L'Osservatore Romano)
Paolo Centofanti