Se è il progresso scientifico a definire il bene e il male
di Augusto Pessina
da L'Osservatore Romano, 10 giugno 2008
Dopo che la Camera dei Comuni britannica ha aperto la strada alla creazione degli embrioni ibridi uomo-animale abbiamo assistito alla grande soddisfazione di molti ricercatori che hanno visto in questa decisione una grande vittoria del progresso scientifico biomedico. C'è invece una notizia che nessuno purtroppo vuole dare: la cosiddetta "biomedicina" è malata anch'essa di una patologia grave e, se non curata, porterà danni irreparabili.
Il primo sintomo della patologia è già insito nell'ambiguo termine "biomedicina" che nell'immaginario collettivo è diventata una specie di "zona franca", dove sembra possibile fare di tutto. Da una parte la ricerca biologica, circonfusa di un alone di sacralità "medica" - leggi: votata alla cura e alla terapia - può finalmente condurre tutte le sue sperimentazioni anche le più aberranti e inutili. Dall'altra, la medicina sembra perdere ogni giorno coscienza del suo vero compito che è di prendersi cura dell'uomo per guarirlo dalla malattia, ove possibile; alleviarne le sofferenze e accompagnarlo fino a morte dignitosa ove la guarigione non sia possibile. La medicina può e deve utilizzare tutte le conoscenze biologiche a patto che non annullino la sua missione e il rispetto della dignità umana.
Leggendo quanto affermato da Benedetto XVI a Ratisbona - e in molte altre occasioni - si capisce meglio dove comincia la malattia della scienza. Da quando la "ragione" dell'uomo si è trasformata, da strumento di indagine e di apertura verso la realtà, a "misura" di tutto, l'assolutizzazione della ricerca scientifica e della scienza - in particolare biomedica - provoca una nefasta ricaduta sulla società. La scienza biomedica è oggi proposta e percepita come "il massimo bene" per l'uomo al quale sembra promettere non solo la salute - che peraltro non è in grado di garantire - ma anche una sorta di "salvezza".
La vera origine della questione è descritta, ancor più chiaramente, in un brano riportato nella enciclica Spe salvi là dove il Papa la ricollega al pensiero di Francesco Bacone (1561-1626). Come scrive Benedetto XVI: "La novità - secondo la visione di Bacone - sta nella nuova correlazione tra scienza e prassi. Ciò viene poi applicato anche teologicamente. Questa nuova correlazione tra scienza e prassi significherebbe che il dominio sulla creazione, dato all'uomo da Dio e perso nel peccato originale, verrebbe ristabilito" (Spe salvi, 16). Se dunque questo dominio dell'uomo sulla creazione, perso con il peccato originale, viene ristabilito, significa che la "speranza di redenzione" può finalmente poggiare sulla "fede nel progresso". Si ha così l'evacuazione dell'aspetto più drammatico di tutta la storia dell'uomo dalla sua origine: quello del bene e del male. Non è più il bene o il male a definire se il passo che si fa è realmente un progresso per l'uomo, ma è il progresso che stabilisce cosa sia bene e cosa male per l'uomo stesso.
Il fatto è , come scriveva anche il grande matematico Jules-Henri Poincarè, che "La scienza può farci conoscere i rapporti tra le cose, non le cose in quanto tali. Al di là di questi rapporti non c'è alcuna realtà conoscibile scientificamente. L'esperienza è la sola fonte di verità, essa sola ci può insegnare qualcosa di nuovo". Il concetto di esperienza ristabilisce correttamente il rapporto con la realtà perché l'esperienza implica quel livello assai misterioso dell'autocoscienza che è l'io di cui la scienza non si può occupare con il suo metodo. Per questo, un uomo che rifletta onestamente trova, al fondo della propria esperienza, indipendentemente dallo stato di benessere sociale, economico, di razza e religione, una risultante ultima e comune: la percezione del "limite" e dell'impotenza di fronte al dolore e al male. Esperienza che si può negare solo ricorrendo alla illusione irrazionale che si tratti di una condizione transitoria che la scienza e la tecnologia saranno in grado di eliminare. Una semplice questione di tempo, poi i limiti e i bisogni di oggi saranno superati e risolti, il progresso stesso ci aiuterà a superare tutte le dipendenze.
È così che nella cosiddetta "scienza biomedica" ha preso corpo una forma di "utopia" che distrugge ogni costruttivo realismo fino a condurre a investire milioni di euro per ricerche, non solo aberranti, ma perfino "inutili", come queste degli ibridi. Con esse si promettono (domani) soluzioni a tutto e intanto si sottraggono fondi a quelle ricerche e a quegli interventi che, più realisticamente, potrebbero almeno migliorare in poco tempo molta pratica medica.
La crudeltà delle utopie è proprio nel fatto che, rimandando sempre al domani, negano una possibile esperienza positiva di umanità oggi, distruggendo così la possibilità di fare esperienza della speranza stessa. La speranza infatti vive ed è alimentata in un presente vissuto con la coscienza che la vita ha un significato oggi. E riconoscere il bisogno che un uomo vive "nell'oggi" costringerebbe la ragione a cercare un senso a quanto accade ora e che non dipende da me. Il domani lo si può svendere come un software dove tutto è virtuale, ma il gioco aiuta solo a dimenticare l'urgenza odierna di significato.
Alcune devastanti conseguenze della "fede nel progresso" sono bene descritte nella enciclica Spe salvi che al termine della analisi ribadisce, con l'intensità di un grido, quale sia l'unica vera possibilità di recupero e quindi di speranza. Scrive Benedetto XVI: "Non è la scienza che redime l'uomo. L'uomo viene redento mediante l'amore. Ciò vale già nell'ambito puramente intramondano. Quando uno nella sua vita fa l'esperienza di un grande amore, quello è un momento di "redenzione" che dà un senso nuovo alla sua vita". E più avanti: "L'essere umano ha bisogno dell'amore incondizionato. Se esiste questo amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora - solo allora - l'uomo è redento, qualunque cosa gli accada nel caso particolare. È questo che si intende, quando diciamo: Gesù Cristo ci ha "redenti "" (Spe salvi, 26).
Come ha denunciato Marc Gellman l'indomani della clonazione della pecora Dolly, nel dibattito organizzato dalla New York Academy of Science, "C'è una sapienza delle persone comuni che è stata ingiustamente oltraggiata da coloro che ritengono che non conoscere termini come aploide, diploide ed embrione totipotente sia moralmente disdicevole. C'è invece una forte e reale conoscenza che noi non siamo i creatori di noi stessi. Le nuove tecnologie minacciano questa fondamentale verità in modo potente e doloroso" ("The Sciences", 37; novembre 1997).
La prima elementare libertà dovrebbe essere nel riconoscere questa dipendenza per non divenire schiavi di noi stessi e dei nostri sogni.
* Università di Milano, Presidente dell'Associazione Italiana Colture Cellulari
Copyright L'Osservatore Romano
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Fonte DISF, Euresis
di Augusto Pessina
da L'Osservatore Romano, 10 giugno 2008
Dopo che la Camera dei Comuni britannica ha aperto la strada alla creazione degli embrioni ibridi uomo-animale abbiamo assistito alla grande soddisfazione di molti ricercatori che hanno visto in questa decisione una grande vittoria del progresso scientifico biomedico. C'è invece una notizia che nessuno purtroppo vuole dare: la cosiddetta "biomedicina" è malata anch'essa di una patologia grave e, se non curata, porterà danni irreparabili.
Il primo sintomo della patologia è già insito nell'ambiguo termine "biomedicina" che nell'immaginario collettivo è diventata una specie di "zona franca", dove sembra possibile fare di tutto. Da una parte la ricerca biologica, circonfusa di un alone di sacralità "medica" - leggi: votata alla cura e alla terapia - può finalmente condurre tutte le sue sperimentazioni anche le più aberranti e inutili. Dall'altra, la medicina sembra perdere ogni giorno coscienza del suo vero compito che è di prendersi cura dell'uomo per guarirlo dalla malattia, ove possibile; alleviarne le sofferenze e accompagnarlo fino a morte dignitosa ove la guarigione non sia possibile. La medicina può e deve utilizzare tutte le conoscenze biologiche a patto che non annullino la sua missione e il rispetto della dignità umana.
Leggendo quanto affermato da Benedetto XVI a Ratisbona - e in molte altre occasioni - si capisce meglio dove comincia la malattia della scienza. Da quando la "ragione" dell'uomo si è trasformata, da strumento di indagine e di apertura verso la realtà, a "misura" di tutto, l'assolutizzazione della ricerca scientifica e della scienza - in particolare biomedica - provoca una nefasta ricaduta sulla società. La scienza biomedica è oggi proposta e percepita come "il massimo bene" per l'uomo al quale sembra promettere non solo la salute - che peraltro non è in grado di garantire - ma anche una sorta di "salvezza".
La vera origine della questione è descritta, ancor più chiaramente, in un brano riportato nella enciclica Spe salvi là dove il Papa la ricollega al pensiero di Francesco Bacone (1561-1626). Come scrive Benedetto XVI: "La novità - secondo la visione di Bacone - sta nella nuova correlazione tra scienza e prassi. Ciò viene poi applicato anche teologicamente. Questa nuova correlazione tra scienza e prassi significherebbe che il dominio sulla creazione, dato all'uomo da Dio e perso nel peccato originale, verrebbe ristabilito" (Spe salvi, 16). Se dunque questo dominio dell'uomo sulla creazione, perso con il peccato originale, viene ristabilito, significa che la "speranza di redenzione" può finalmente poggiare sulla "fede nel progresso". Si ha così l'evacuazione dell'aspetto più drammatico di tutta la storia dell'uomo dalla sua origine: quello del bene e del male. Non è più il bene o il male a definire se il passo che si fa è realmente un progresso per l'uomo, ma è il progresso che stabilisce cosa sia bene e cosa male per l'uomo stesso.
Il fatto è , come scriveva anche il grande matematico Jules-Henri Poincarè, che "La scienza può farci conoscere i rapporti tra le cose, non le cose in quanto tali. Al di là di questi rapporti non c'è alcuna realtà conoscibile scientificamente. L'esperienza è la sola fonte di verità, essa sola ci può insegnare qualcosa di nuovo". Il concetto di esperienza ristabilisce correttamente il rapporto con la realtà perché l'esperienza implica quel livello assai misterioso dell'autocoscienza che è l'io di cui la scienza non si può occupare con il suo metodo. Per questo, un uomo che rifletta onestamente trova, al fondo della propria esperienza, indipendentemente dallo stato di benessere sociale, economico, di razza e religione, una risultante ultima e comune: la percezione del "limite" e dell'impotenza di fronte al dolore e al male. Esperienza che si può negare solo ricorrendo alla illusione irrazionale che si tratti di una condizione transitoria che la scienza e la tecnologia saranno in grado di eliminare. Una semplice questione di tempo, poi i limiti e i bisogni di oggi saranno superati e risolti, il progresso stesso ci aiuterà a superare tutte le dipendenze.
È così che nella cosiddetta "scienza biomedica" ha preso corpo una forma di "utopia" che distrugge ogni costruttivo realismo fino a condurre a investire milioni di euro per ricerche, non solo aberranti, ma perfino "inutili", come queste degli ibridi. Con esse si promettono (domani) soluzioni a tutto e intanto si sottraggono fondi a quelle ricerche e a quegli interventi che, più realisticamente, potrebbero almeno migliorare in poco tempo molta pratica medica.
La crudeltà delle utopie è proprio nel fatto che, rimandando sempre al domani, negano una possibile esperienza positiva di umanità oggi, distruggendo così la possibilità di fare esperienza della speranza stessa. La speranza infatti vive ed è alimentata in un presente vissuto con la coscienza che la vita ha un significato oggi. E riconoscere il bisogno che un uomo vive "nell'oggi" costringerebbe la ragione a cercare un senso a quanto accade ora e che non dipende da me. Il domani lo si può svendere come un software dove tutto è virtuale, ma il gioco aiuta solo a dimenticare l'urgenza odierna di significato.
Alcune devastanti conseguenze della "fede nel progresso" sono bene descritte nella enciclica Spe salvi che al termine della analisi ribadisce, con l'intensità di un grido, quale sia l'unica vera possibilità di recupero e quindi di speranza. Scrive Benedetto XVI: "Non è la scienza che redime l'uomo. L'uomo viene redento mediante l'amore. Ciò vale già nell'ambito puramente intramondano. Quando uno nella sua vita fa l'esperienza di un grande amore, quello è un momento di "redenzione" che dà un senso nuovo alla sua vita". E più avanti: "L'essere umano ha bisogno dell'amore incondizionato. Se esiste questo amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora - solo allora - l'uomo è redento, qualunque cosa gli accada nel caso particolare. È questo che si intende, quando diciamo: Gesù Cristo ci ha "redenti "" (Spe salvi, 26).
Come ha denunciato Marc Gellman l'indomani della clonazione della pecora Dolly, nel dibattito organizzato dalla New York Academy of Science, "C'è una sapienza delle persone comuni che è stata ingiustamente oltraggiata da coloro che ritengono che non conoscere termini come aploide, diploide ed embrione totipotente sia moralmente disdicevole. C'è invece una forte e reale conoscenza che noi non siamo i creatori di noi stessi. Le nuove tecnologie minacciano questa fondamentale verità in modo potente e doloroso" ("The Sciences", 37; novembre 1997).
La prima elementare libertà dovrebbe essere nel riconoscere questa dipendenza per non divenire schiavi di noi stessi e dei nostri sogni.
* Università di Milano, Presidente dell'Associazione Italiana Colture Cellulari
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Fonte DISF, Euresis