di Marcelo Sánchez Sorondo Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali
da L’Osservatore Romano, 23-24.06.2008
Al termine del suo laborioso cammino nella Critica della ragione pura che fa capo all'io trascendentale, Kant confessava, con la sincerità di un antico stoico, un profondo sentimento di attesa: "Ogni interesse della mia ragione (tanto quello speculativo quanto quello pratico) si concentra nelle seguenti tre questioni:
1. Che cosa posso sapere?
2. Che cosa devo fare?
3. Che cosa ho diritto di sperare?".
Quando poi riprese queste tematiche nella tarda Logik, aggiungeva una quarta domanda: "Che cosa è l'uomo?". Dopo tutto, infatti aggiunge - e la precisazione è una novità di valore essenziale - "tutto questo si potrebbe attribuire all'antropologia poiché le tre prime questioni si rapportano all'ultima, cioè, che cosa è l'uomo?"
Queste domande che fanno dell'antropologia il luogo privilegiato della ricerca della verità, rendono Kant uno dei pensatori moderni più radicale e geniale e insieme uno dei più problematici. Le laboriose analisi della Kritik der reinen Vernunft, ch'egli intende far passare sotto il nome di "metafisica", l'hanno smarrito in un labirinto che termina con più domande che risposte. Tuttavia, egli non disarma e fa appello - probabilmente sotto l'influsso del sentimento (feeling) di Hume che dà vitalità e valore alle impressions - alla convinzione ed esperienza profonda. Così egli riesce ad affermare nel noto testo della Kritik der praktischen Vernunft: "Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me". Nessuna incertezza o dubbio: "Io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza". Due esperienze fondamentali e pertanto due vie d'apertura verso l'infinito: ciascuna con lo stesso punto di partenza antropologico, ma con un orientamento diverso, che diventano oggi, con lo sviluppo della fisica, astrofisica, biologia e neurologia contemporanee di particolare significato e attualità. Seguiamo ancora le indicazioni di Kant.
La prima via - spiega - comincia dal posto che io con il mio corpo e il mio cervello occupo nel mondo sensibile esterno, e allarga la connessione, in cui mi trovo, a "una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora nei tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata". Questa esperienza è la via della riflessione sulla natura, che porta lo spirito al di là della tangente del mondo visibile, ammirato e smarrito, ma tuttavia fiero della sua consapevolezza dell'infinito.
La seconda via, cioè l'esperienza della legge morale, comincia "dal mio io invisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha - si noti bene! - la vera infinitezza, ma che solo l'intelletto può penetrare e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi conosco in una connessione non, come là (nell'esperienza del cielo stellato sopra di me), semplicemente accidentale, ma universale e necessaria". Nell'essere umano il punto di intersezione tra le due esperienze o spettacoli - come si vogliano chiamare - è impressionante e rivelativo dell'infinità reale, benché per partecipazione, dello spirito umano, cioè dell'anima intellettiva che ne è il suo centro.
Il primo spettacolo, spiega Kant, è quello di una quantità innumerevole di mondi, le cui misure di grandezza come c'informa l'astrofisica contemporanea assommano a milioni e centinaia di milioni di anni luce (un anno-luce è uguale a 9.460 miliardi di chilometri), ed è analogo per contrasto a quello proposto dalla microfisica delle particelle subnucleari che ci fa considerare la durata in misure minuscole e l'energia in quantità enormi. Perciò Kant ben può dire che tale spettacolo di magnitudini infinite "annulla completamente la mia importanza di creatura animale, che deve restituire nuovamente al pianeta (un semplice punto dell'universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista di un breve tempo (e non si sa come) della forza vitale".
Il secondo spettacolo invece "eleva infinitamente il mio valore, nel senso di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall'animalità e anche dall'intero universo sensibile, almeno per quanto si può riferire dalla determinazione conforme a fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all'infinito".
Tale è per Kant il grave e insostituibile compito della filosofia come "saggezza" (Weisheit): interpretare, all'esterno, la verità di essere della presenza della grandezza in continua espansione del mondo fisico, e della vita, e, all'interno, cioè nel profondo della libertà come la verità di essere dell'uomo. In questo modo emerge l'anima come soggetto che si possiede e si antepone come io.
Il primo spettacolo o esperienza è il cammino della scienza, particolarmente a partire dalla "rivoluzione copernicana" come la chiama lo stesso Kant ben consapevole del nuovo indirizzo determinato da Copernico e da Galileo; l'altro è la via del "conosci te stesso" che Eraclito intravede nel Logo e Aristotele individua nell'intelletto umano "capace di diventare e di fare tutte le cose", come superamento del fisicismo naturalista dei presocratici. I due spettacoli o esperienze si incontrano e si intrecciano nell'essere umano.
Da queste due esperienze risulta che la conoscenza dell'uomo non si gioca su un solo piano o livello, quello dell'osservazione, dell'esplicazione e della sperimentazione esterna (come riproduzione dei fenomeni) che è il cammino della scienza moderna. Siffatta conoscenza si allarga all'interazione tra l'osservazione naturale della scienza e la comprensione riflessiva della filosofia. L'essere umano è allo stesso tempo un ente osservabile, come tutti gli esseri della natura di cui egli partecipa, ed è un essere che conosce se stesso come esigeva Eraclito e poi Socrate, oppure che interpreta se stesso (Self interpreting being per usare la definizione di Charles Taylor o Paul Ricoeur).
Questa affermazione di due differenti livelli oggettivi del conoscere che si fanno presenti nell'uomo, ossia quello esterno del mondo che è l'oggetto della scienza e quello interno del se stesso, che fa capo all'io, può offrire una risposta di riconciliazione e di pacificazione alla questione posta dallo statuto dell'essere umano nel campo del sapere nell'epoca del predominio della scienza, a meno che, l'ideologia positivista non pretenda di abolire la frontiera fra le scienze della natura e le scienze dell'uomo e di annettere le seconde alle prime.
È con questo spirito che possiamo dirimere un conflitto come è quello della scienza legata alle mutazioni genetiche o all'ereditarietà, che sebbene siano state scoperte dal monaco agostiniano Mendel, dopo Darwin vengono il più delle volte collegate alle teorie evoluzioniste. Nessun limite esterno si può imporre all'ipotesi secondo cui variazioni aleatorie e modificazioni avvenute, si siano fissati e rinforzati nel "corridoio stretto d'evoluzione" al fine di assicurare la sopravvivenza della specie, e quindi anche di quella umana. Finora abbiamo evidenze storiche e forse biologiche, quindi qualcosa che è più di un'ipotesi, per dirla come Giovanni Paolo ii, su cui le scienze sperimentali dovranno fare accertamenti più stringenti con il rigore del metodo galileiano della formula matematica, della riproduzione dell'ipotesi in un esperimento concreto e veritativo.
La filosofia da parte sua - assieme alle scienze sociali aperte alle conoscenze della biologia - non deve intraprendere una battaglia persa in partenza per stabilire i fatti naturali. La filosofia deve interrogarsi su come possa incontrarsi con il punto di vista naturalista partendo dal presupposto che l'essere umano è già un essere parlante e questionante. Essere umano quindi, che si è dato delle risposte che sono indice del suo regno di libertà nei confronti della natura data. Mentre lo scienziato segue l'ordine discendente delle specie e fa apparire l'aspetto aleatorio, contingente e imprevedibile del risultato evolutivo dell'essere umano, il filosofo prende le mosse dall'autointerpretazione della propria situazione intellettuale, morale e spirituale e procede verso l'alto risalendo il corso dell'evoluzione fino alle fonti della vita e dell'essere che l'uomo stesso è. Il punto di partenza può essere ancora la questione originaria, sempre latente con una specie di autoreferenzialità di principio: la legge morale per Kant è quello che fa la differenza, la libertà è quello che Hegel chiama "l'essenza dello spirito".
L'essere umano, scoperto e riconosciuto a se stesso come morale e libero, può legittimamente domandarsi come egli si sia venuto preparando nella natura animale. Lo sguardo è quindi retrospettivo in quanto rimonta la catena delle mutazioni e delle variazioni. Questo sguardo retrospettivo incrocia quello progressivo, discendente il fiume delle "discendenze" dell'essere umano, uomo e donna. I due sguardi si intersecano in un punto: la nascita di un mondo simbolico e spirituale dove la legge morale e la libertà realizzata configurano l'umanità dell'uomo.
La confusione da evitare risiede nei due sensi che è possibile assegnare al termine origine, quello della derivazione genetica o orizzontale e quello invece della fondazione ontologica o verticale. L'uno fa riferimento all'origine della specie nella successione nello spazio e tempo a partire da un dato già originato, l'altro invece si pone domande sull'apparire dell'essere partecipato a partire dall'Essere per essenza. Si tratta qui della prima origine dell'ente che è il "passaggio" dell'ente dal nulla all'essere, che non è propriamente un passaggio quanto piuttosto l'origine primaria dell'ente che emerge sul nulla grazie all'atto di essere partecipato: Ex hoc quod aliquid est ens per participationem, sequitur quod sit causatum ab alio, ossia, da ciò che una cosa è ente per partecipazione ne segue che sia causata da altro. Di qui la formula completa della creazione come partecipazione (passiva nella creatura e attiva in Dio): Necesse est dicere omne ens, quod quocumque modo est, a Deo esse, ossia, "È necessario affermare che ogni cosa, che in qualsiasi modo è, viene da Dio". L'essenziale in questa "origine" verticale è il decentramento analogico verso il profondo, ossia, verso il se stesso di ciascuno, e il ri-centramento analogico verso l'alto, ossia verso Dio. Afferma questo anche l'ultimo Tommaso: Deus est et tu: sed tuum esse est participatum, suum vero essentiale, ossia, "Dio è e tu: ma il tuo essere è per partecipazione, il Suo per essenza".
Il passaggio dal semplice essere come animale creatura, per usare un'espressione kantiana, verso la dignità metafisica di essere spirituale analogo a Dio, si fonda nella dignità dell'uomo come forma per se subsistens, ossia, anima intellettiva, io trascendente, grazie all'appartenenza diretta, cioè in proprio che l'anima intellettiva ha dell'essere (esse) o atto di essere (actus essendi) partecipato. San Tommaso è molto determinato su questo punto, che costituisce l'originalità della sua antropologia, poco conosciuto dalla filosofia moderna: "quando viene a mancare il fondamento della materia - come nelle sostanze spirituali e nell'anima umana - la forma che resta di una natura determinata, una natura sussistente per sé, si rapporterà al suo essere (esse) come la potenza all'atto. Non dico come potenza separabile dall'atto, ma come quella ch'è sempre accompagnata dal proprio atto". Così egli conclude che anche nelle creature spirituali "c'è la composizione di potenza e atto".
La conclusione che si può desumere da questa altissima riflessione speculativa dell'Aquinate è che la dignità di essere spirito è caratterizzata da Kant, Hegel e da altri dopo la rivoluzione galileiana in convergenza con san Tommaso: nel pensiero moderno attraverso la trascendentalità del conoscere, della libertà, della legge morale che fanno capo all'io, mentre in san Tommaso queste trascendentalità come l'io stesso, il se medesimo, si fondano nell'atto di essere, e la sua appartenenza necessaria allo spirito (finito) si ha per diretta partecipazione da Dio. Così ogni singolo sussistente, come ha mostrato anche Kierkegaard, ha la sua origine verticale come persona creata.
©L'Osservatore Romano - 23-24 giugno 2008