Riportiamo un commento di P. Fernando Pascual LC,
Professore di Filosofia dell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma
La notizia è rimbalzata subito sulla stampa internazionale: un gruppo di ricercatori USA affermano di poter ottenere cellule staminali embrionali senza distruggere gli embrioni stessi.
E’ apparsa originariamente sulla rivista Nature, il 23 agosto 2004, sotto il titolo "Human embryonic stem cell lines derived from single blastomeres", firmata da Irina Klimanskaya, Young Chung, Sandy Becker, Shi-Jiang Lu e Robert Lanza.
Di cosa si tratta? Di estrarre una cellula (blastomero) da un embrione molto precoce (quando ha soltanto 8-10 cellule) e coltivarla poi in vitro. Una volta moltiplicatasi, si ottiene un elevato numero di cellule staminali.
Ovviamente, si sostiene che gli embrioni “usati” non subiscono danni per il prelievo della preziosa cellula.
In realtà, la tecnica non è nuova, perché da tempo i laboratori di fecondazione artificiale estraggono cellule da embrioni precoci per fare una diagnosi preimpianto, con la quale si può conoscere la “qualità genetica” dell'embrione in questione.
Sono in molti a pensare che questo nuova metodologia apra una possibile “via etica” per ottenere cellule staminali embrionali. Perché, dicono, evita la distruzione di embrioni.
In realtà, l'etica ci deve mettere in guardia di fronte a questa nuova possibilità tecnica ed ai suoi non pochi rischi.
Se si accetta che l'embrione è un essere umano in fase iniziale di sviluppo, dobbiamo trattarlo secondo la sua dignità di membro della nostra specie.
Con la tecnica in questione, tale dignità non viene rispettata, per due motivi fondamentali.
Il primo, perché è immorale alla radice qualsiasi tecnica di fecondazione artificiale che “produca” embrioni fuori del rapporto matrimoniale e fuori dal contesto naturale che meritano per l'inizio della vita: il grembo materno (tecnicamente, le tube di Falloppio). Concepire esseri umani in laboratorio è già un attentato alla loro dignità e, spesso, anche alla loro salute.
Il secondo, perché questa metodica è ancora sperimentale, e non siamo sicuri dei danni che possano subire gli embrioni che sono “usati” per i ricercatori e che perdono una delle loro cellule in una fase così delicata del proprio sviluppo.
Si potrebbe aggiungere un terzo motivo.
Una coppia che decidesse di avere un figlio “in vitro” non sarà normalmente disponibile all'uso del proprio figlio (embrione precoce) per scopi scientifici.
Certamente, non sono poche le coppie che chiedono la diagnosi preimpianto sui propri figli (il che implica gli stessi rischi della “nuova” metodica che ci viene presentata da Nature), ma lo fanno per uno scopo eugenetico: per eliminare gli embrioni non sani ed accogliere soltanto quelli sani.
Uno scopo chiaramente immorale, e che non giustifica minimamente il ricorso a un intervento ad alto rischio per la salute e per la vita dell’embrione.
Crediamo, dunque, che la nuova tecnica non sia una alternativa via etica per la ricerca medica, perché riteniamo, come molti uomini di buona volontà, che la medicina ha come vocazione primaria il proteggere la vita e la salute di tutti gli esseri umani. Anche quando ci troviamo di fronte ad un piccolo embrione che merita uno dei nomi più belli del nostro vocabolario umano: figlio.